"PERCEZIONI DELL'INVISIBILE" - ANTOLOGIA POETICA CURATA DA GIUSEPPE VETROMILE, EDIZIONI L'ARCA FELICE - "COLLANA COINCIDENZE" NR. 45 COLLEZIONE DI ARTE-POESIA DIRETTA DA MARIO FRESA - IMPREZIOSITA CON FOTOGRAFIE DI GABRIELLA MALETI

L'ANTOLOGIA COMPRENDE TESTI POETICI DI:

- LUCIANNA ARGENTINO (Roma)
- PASQUALE BALESTRIERE (Barano d'Ischia, Napoli)
- FLORIANA COPPOLA (Napoli)
- GIOVANNA IORIO (Roma)
- KETTI MARTINO (Napoli)
- CINZIA MARULLI RAMADORI (Roma)
- MARCO RIGHETTI (Roma)

sabato 30 novembre 2013

La terza presentazione: Napoli, Libreria Treves, 29 novembre 2013

Ancora un incontro di alta e buona poesia, lo scorso 29 novembre alla Treves di Piazza Plebiscito a Napoli, nel freddo pungente di un inverno ormai alle porte, ma nell'atmosfera calda e avvolgente dei poeti, anzi delle poetesse, e dei numerosi amici che hanno assistito con evidente interessamento alla presentazione. Siamo dunque giunti alla terza presentazione dell'Antologia, che con un percorso ricco di emozioni e di cultura dal Campidoglio (aprile 2013) e dal Teatro dei Dioscuri (maggio 2013) ci ha accompagnato fin qui a Napoli, nella storica libreria Treves.
Presenti le quattro autrici Floriana Coppola, Giovanna Iorio, Ketti Martino e Cinzia Marulli Ramadori.
Dopo i saluti e una breve riflessione sull'antologia di Bruno Galluccio, ha preso la parola la giovane Flavia Balsamo, che ha illustrato in modo impeccabile, preciso e approfondito, la poetica dei sette autori, individuandone magistralmente i differenti dettati e stili, tutti però tesi alla "percezione dell'invisibile", tema principale proposto dal curatore Giuseppe Vetromile. Flavia è stata molto applaudita, il suo vaglio critico comincia ad essere molto apprezzato e richiesto, e lo merita abbondantemente, per la sua ottima capacità di scendere nell'animo dell'autore e per saperne individuare bene i tratti salienti del pensiero creativo, sia che si tratti di poesia, sia di narrativa. Le auguriamo sempre maggiori affermazioni, anche come scrittrice e poetessa!
Abbiamo creato un bel gruppo, ha affermato al termine dell'incontro Giuseppe Vetromile, ed è vero. La poesia non è singola voce nel deserto, ma spesso si amplifica integrandosi con quella degli altri, se esiste affettuosa coesione. La lettura di alcuni testi proposti dalle quattro poetesse presenti ha ulteriormente confermato questa asserzione. Applausi per tutti, dunque, e ben meritati.
Ci sarà una quarta presentazione? Chissà! Le copie a nostra disposizione sono quasi terminate, ma ciò non impedisce che ci possa essere un altro interessante e affascinante incontro, prossimamente! Arrivederci, dunque, e non addio, come è bello dire tante volte!

Le fotografie scattate in occasione dell'incontro:
https://www.facebook.com/media/set/?set=oa.255198191297678&type=1

lunedì 19 agosto 2013

La recensione su "La Nuova Tribuna Letteraria"



La recensione a cura di Stefano Valentini nella rubrica "Lo scaffale", a pag. 40 della Rivista "La Nuova Tribuna Letteraria", nr. 111, 3° trimestre 2013

giovedì 9 maggio 2013

Una approfondita relazione critica di Raffaele Urraro



PERCEZIONI DELL’INVISIBILE
a cura di Giuseppe Vetromile.
Edizioni L’Arca Felice, Salerno 2012

Percezioni dell’Invisibile è un’interessante antologia poetica, edita dalle Edizioni L’Arca Felice, piccola ma coraggiosa e prestigiosa casa editrice salernitana, che pubblica preziosi prodotti di poesia in un’elegante veste tipografica.
Pino Vetromile, che ne è il curatore, poeta lui stesso e instancabile operatore culturale, ha selezionato 7 poeti, tra campani e romani, presentandoli con poche ma intelligenti note e con una acuta premessa generale nella quale egli afferma che essi “sono voci naturalmente diverse tra di loro […] ma tutte tese a ricostruire, almeno in parte, come in un grande mosaico, i brani del profondo e invisibile mondo che sta sotto la nostra quotidiana superficie materiale e temporale” (p. 9). 
Il titolo della raccolta, Percezioni dell’Invisibile, rinvia ad una concezione della poesia secondo la quale la realtà fenomenica rimanda ad un’altra realtà, anzi ad una realtà altra. E la realtà altra è quella che viene colta nella realtà apparente che si mostra per lo più in una veste semplice, a volte anche insignificante, mentre l’altra è quella percepita dal poeta con il suo terzo occhio, quello che De André chiamava “invincibile e speciale”, cioè l’occhio dell’intuizione prodotta dalle particolari capacità di immaginazione, di fantasia, di penetrazione nelle cose scorzate dalla sensibilità del poeta. E la realtà altra è appunto quella dell’invisibile, collegata a quella fenomenica, ma più significativa, e più speciale, e quindi più vera. Il richiamo a Baudelaire che si rinviene nella bella introduzione di Vetromile è quanto mai opportuno essendo il grande poeta francese il teorico delle “correspondances”, cioè delle corrispondenze, dei richiami che il poeta coglie tra la realtà vera e la sua significanza simbolica. Anzi, a voler estremizzare il ragionamento, per avvalorare ancora di più il contenuto semantico del titolo, possiamo dire che tutta la poesia spesso mette in moto proprio quell’artificio poietico in virtù del quale il poeta coglie sempre nella realtà fenomenica un significato altro, più profondo e più vero di quello che la realtà apparente gli comunica.
Detto del titolo, addentriamoci nella presentazione dei 7 poeti, ognuno presente nell’antologia con la propria modalità del fare poetico e quindi con il suo mondo poetico e artistico e con le sue esigenze estetiche, ma tutti riconducibili, in un modo o in un altro, all’idea della poesia adombrata nel titolo della raccolta.

Lucianna Argentino

Lucianna Argentino ci presenta qui originalissimi frammenti autobiografici. Però nella prima parte non si tratta di squarci di vita comunemente intesa, ma di una originale autobiografia condotta sulle modalità di conquista della parola, sicché assistiamo ad un processo in virtù del quale la parola si lascia conquistare lentamente e lentamente cresce e si fa originale modalità espressiva. L’autrice e la parola crescono insieme e insieme si proiettano nel mondo. Agli inizi è il confronto della nostra poetessa-bambina con la pagina bianca sulla quale lei scopriva e imparava che con le parole si poteva, magicamente, “riscrivere” la realtà. E questa consapevolezza viene descritta come la conquista del senso di un prodigio: la parola scrive/dice la realtà. D’altra parte in principio erat verbum et verbum caro factum est: l’incipit giovanneo indica chiaramente la primogenitura della parola rispetto alla carne, al contenuto, come a dire la primogenitura del verbum rispetto alla res.
Ma dove sono le parole? qual è il loro territorio? Lucianna, con il suo linguaggio costantemente trattenuto in quel luogo misterioso e magico che è lo spazio della poesia, linguaggio dimidiato tra la pura vaga e “ambigua” semanticità della parola e l’afflato lirico che connota ogni suo testo, descrive il luogo originario della parola ritrovata: “lei (la poetessa-bambina) abbraccia le parole vive nel fondo marino del suo corpo contro il loro corpo gonfio di silenzio. Le porta a galla perché sulla pagina cantino al mondo la lucentezza delle tenebre e come è giusto il nostro essere temporali e come è perfetta l’equazione di vita e di morte per noi numeri complessi nel moto relativo dell’esistenza” (p. 14). Sì, le parole vivono nel loro silenzio fino a quando il poeta, il rimbaldiano “ladro di fuoco”, le rapisce alla loro insignificanza, cioè alla loro morte, per dare ad esse voce e senso, portandole sulla pagina dove finalmente avranno il potere di portare la luce dove erano le tenebre, anzi di dare ad esse, alle tenebre, la luce e la loro vera significanza. Alle parole scoperte, il poeta dà una insospettabile verginità semantica portandole “ad un altro uso, un uso inutile eppure misteriosamente prezioso, indispensabile” (p. 14). E sì, perché la poesia può apparire inutile, ma essa è “preziosa, indispensabile”, perchè il poeta non è un semplice scopritore di parole, ma anche un utilizzatore di parole ricreandole, una sorta di sacerdote che dà vita ad un rito che è vita vera perché scoprire le parole, portarne alla luce la significanza, portandole anche a significanze allotrie, è un rito che ha sempre qualcosa di divino, di quello spirito divino di cui parlarono prima Platone e poi Cicerone.
Anzi, le parole neanche sanno qual è la loro significanza; è il poeta che le “percuote” facendole “risuonare”. E la poetessa-bambina, che cresceva come crescevano in lei le parole delle sue scoperte, veniva lasciata lì, a giocare con i segni. E durante la notte lei “vegliava su un giaciglio di parole inaridite” (p. 15), in attesa che al silenzio tornasse la parola per illuminarlo e per dirlo. Perché anche il silenzio parla quando si trovano le parole adatte a farlo parlare.
Nella seconda parte i “frammenti” autobiografici sono dedicati a momenti di vita vera e propria. E qui si stagliano le figure famigliari tra cui spicca quella del padre con la sua malattia e la sua scomparsa. E le parole assumono un accento dolente, anche se sempre sorvegliate da una consapevolezza poietica che le tiene a bada, come nella chiusa finale laddove Lucianna parla della “resplendentia” delle cose, di cui sono capaci i bambini, i soli che hanno il dono di “mostrare la natura sacra di ogni cosa e del suo specifico grado di bellezza” (p. 17).
Per quanto riguarda l’aspetto artistico che connota queste pagine, bisogna rilevare che non siamo di fronte a versi, ma ad una prosa lirica di grande fattura, prosa lirica che permette all’autrice, ovviamente, di dare alle sue parole un andamento narrativo, ma connotato da una profonda partecipazione intima, cose che si inverano in un prodotto di grande originalità.
Affermo con sicura consapevolezza che leggere l’intera autobiografia da cui sono stati estrapolati i frammenti riportati nell’antologia, dovrebbe costituire un dono prezioso di Lucianna la cui scrittura poetica affascina e coinvolge perché in essa si mescolano, in una sintesi alta, la sicura consapevolezza linguistica, i frequenti abbandoni lirici, gli apporti altrettanto frequenti di segni linguistici tratti dall’ambito scientifico, il tutto a dare forma ad un mondo poetico di grande fascino.

Pasquale Balestriere

I testi di Pasquale Balestriere riportati nell’antologia rivelano una marcata esplosione di segni che si rincorrono in un costante gioco di preziose metafore che consentono all’autore di percepire il senso nascosto delle cose e, in sintonia con il titolo dell’antologia, di percepire l’invisibile. E l’invisibile di Balestriere qui è soprattutto il tempo. Infatti egli, abbandonandosi al potere, o al prepotere, della memoria, coglie nel “discrimine perenne / tra ciò che fummo e siamo” (p. 19) l’essenza del tempo che passa e che il poeta rappresenta come un “masso tombale” che si getta sulle cose a segnarne la fine e, nello stesso tempo, a segnarne la rinascita nella memoria. Memoria che è un “mare pugnace dei ricordi, / sale bruciante di attimi remoti, / lame sottili e dolenti” (pp. 19-20), ricordi metabolizzati ed esplorati dal poeta che, avventurandosi tra gli attimi di vita vissuta, dà ad essi un senso, li “disancora dall’ovvio”, come collocandoli in un crivello selezionatore. Lo aiuta in questo processo una ritrovata serenità dello spirito, complice il paesaggio che offre un “luminoso giorno” che si leva “tra cuspidi / di colli e valli e gialli ginestroni” (p. 20). Ma il tempo passa inesorabile (Labuntur anni; p. 20) e si preparano le “rauche lucerne”, le vaghe fiammelle che stentano ad illuminare la “sotterranea notte”, e noi siamo costretti ad abdicare al “soffio d’aria ch’ora ci appartiene” (p. 20).
Cosa ci resterà? che sarà di noi? Qui l’invito del poeta si fa esplicito e chiaro: “lascia stare ogni sopravvivenza / ché, come sai, troppo spesso la storia / nel suo svagato e vano / andare divinizza immeritevoli / parvenze, semplici giochi di luce” (p. 21). Ma quando Balestriere dice queste cose, manifesta, come già si è detto, una evidente serenità di spirito, con la quale accoglie l’unica cosa che ci resta del nostro vissuto, cioè “effigi primordiali di memorie” che lasciano aperta la porta a “sbrigliati pensieri” che non possono fare altro che prendere atto della ineluttabilità del trascorrere del tempo.
Questo processo, questo bagnarsi di memorie e di pensieri, porta al punto più lontano che si intravede nello specchietto retrovisore della nostra vita, all’infanzia, ai suoi giochi, all’”azzurro” che la caratterizza e alla quale il poeta vuole ancora “aggrapparsi”. Certo, i “pensieri volteggiano” come “ciechi / pipistrelli – che insonni batteranno la notte” introdotta da “squille crepuscolari” (p. 19), ed è la norma per chi è chiamato a questo nostro inquietante incarico di vivere, ma il mondo poetico di Balestriere è un mondo chiaroscurale dove a momenti di scurità esistenziale si alternano l’”intatto strido del grillo”, i “cauti gabbiani”, il “volo planato di colombi”, i “vivi affetti”, il “dolce canto”, entità che costituiscono il mondo della natura, il paesaggio e i suoi abitanti, in cui Balestriere sembra poter ritrovare il bandolo della matassa, quel filo che porta alla speranza.
È questo il mondo poetico di Balestriere, che si sostanzia di una visione della vita posseduta con chiarezza di basi filosofiche, di una sorta di profonda religione della natura, e di un senso della poesia come momento di analisi e approfondimento delle ragioni della vita, del mondo, della natura. Poesia che si caratterizza, sul piano prettamente estetico, di un linguaggio vario e ricco, spesso prezioso e culto, e di una versificazione accorta e controllata che lascia sempre intuire il sottofondo, o retroterra, di matrice classica.
Ma soprattutto è una poesia che si regge sul gioco elegante e sottile delle metafore in virtù delle quali il poeta riesce a cogliere nella realtà la loro vera natura nascosta, e nelle parole profondità semantiche che solo il gioco della poesia può riuscire a svelare e rivelare.

Floriana Coppola

La poesia di Floriana Coppola è tesa, programmaticamente, alla ricerca di un “altrove”, alla ricerca di un “invisibile” che è il “superamento dell’immanenza”, “altrove” che può anche essere colto, sfiorato o toccato, da una parola, da un segno che diventa in tal caso “messaggero e luce”, rivelazione di qualcosa di consistente, ma anche soltanto di qualcosa di meno labile: basta che apra uno spiraglio attraverso il quale si possa comunque sperare di pervenire all’invisibile.
Ne sono esempi appunto i testi riportati in questa antologia nei quali Floriana dà il senso più vero del suo mondo morale e filosofico e della modalità del suo fare poetico che rientra a pieno titolo in questa antologia che celebra la poesia come “percezione dell’invisibile”. Non a caso Trascendenze è il titolo sotto il quale Floriana ha accomunato i suoi testi. E difatti è semplice il meccanismo poietico seguito dalla poetessa: dall’immanenza alla trascendenza, dalla materia alle esigenze dello spirito, dal reale al fascino di un “altrove” desiderato e rimpianto. È la “duplicata coscienza dell’uomo / oltre ogni materia” (p. 29) che spinge ad un rapporto dialettico con il reale e al sogno di una realtà altra. Floriana parla propriamente di “invisibile”, come nel titolo del libro: “armata lucente che s’interroga muta / sostiene l’invisibile e sbarca ogni giorno / nei cortili sudici del dubbio / in stanza meschina la navigazione assorta / senza meta” (p. 30): è la ricerca dell’invisibile che spinge e sostiene gli sforzi della poetessa, anche se affiorano qua e là dubbi in un viaggio che s’indovina senza una meta ben precisa. E difatti siamo “un cruciverba sbagliato / non riuscito … uno scherzo / una farsa uno spreco” (p. 31); siamo parole senza senso, che non si incrociano bene. Ma la ricerca tuttavia continua. Non si può stare così, senza dare un senso a ciò che siamo, senza varcare gli orizzonti del finito. Ecco allora la richiesta di Floriana: “datemi un nome / inviate al mio ultimo recapito / l’esercito bellicoso appassionato / di sillabe, questo concerto biancoceleste / di vocali e io risorgerò intatta”(p. 31), e difatti è proprio lì, in quella ricerca che soltanto con le parole può essere effettuata e dare frutti significativi, che può consistere la vera, effettiva dimensione della nostra esistenza. Ma in Floriana la ricerca dell’invisibile, dell’”altrove”, si svolge in una drammatica danza con la realtà. Sicché l’invisibile, l’”altrove”, altro non è che l’anelito ad uscire dalle pastoie della vita quotidiana, che coinvolge gli “uomini”, le loro “infedeltà”, le loro “perenni promesse”, vita quotidiana la cui porta è sempre socchiusa e quindi sempre disponibile ad essere varcata. E il varco di essa è la speranza, è il sogno, la possibile fuga verso la libertà che poi assume tutte le sembianze di un’aspirazione all’”altrove”, come volevasi dimostrare. E tutto questo non è indolore: tutto questo genera “un incendio che non so domare / si sono aperte delle crepe nella mia anima / per aver troppo gridato il tuo nome / ho succhiato avida / le gocce dolceamare della tua assenza” (p. 33). È lo stesso fuoco che ha bruciato i suoi “memorabili sedici anni”, consumati “in un furore di vento” (p. 34). Ora sono intervenute le “rughe” a solcare il suo viso, e sarà un’altra battaglia, quella con il tempo che avanza inesorabile: “indietro rimane l’adolescenza dolente / con il suo luccichio di squame // pensavo di afferrarla / eppure è sfuggita tra le dita / e l’ho persa” (p. 34).
Ha un sapore quasi liturgico la poesia di Floriana Coppola, sapore un po’ amaro, che è il sapore della realtà, della vita vissuta e di quella presente, del rimpinato dell’adolescenza “sfuggita tra le dita” e “persa”, della dolente esistenza, della “nebbia” che avvolge ogni nostra giornata, e sapore un po’ consolatorio, un po’ dolceamaro, che è il sapore della speranza, del desiderio di un altrove sognato come possibile. Mentre il canto si sviluppa con un andamento tra la narrazione e il salmo, comunque della preghiera, con cadenze che formano un ritmo recitativo e, appunto, salmodiante che è lo specchio dell’anima, la voce della parola e del silenzio. Ed è qui il fascino di questa poesia. Senza dimenticare la forza della parola, direi l’incantamento di un linguaggio intenso e denso semanticamente e vibrante di seduzione suggestiva e coinvolgente.       

Giovanna Iorio

I testi presenti nell’antologia sono tratti da una raccolta inedita, L’altalena del satiro, il cui componimento eponimo è l’ultimo (p. 46). E di qui vorrei partire per queste brevi note per enucleare quelli che s’indovinano essere le connotazioni fondamentali del fare poetico di Giovanna Iorio.
Ebbene, quel satiro che “continua a dondolare / sul soffitto”, che “ride e ride e ride”, sembra essere la prefigurazione del poeta che guarda al mondo e alle cose in modo piuttosto disincantato, per vederli mentre compiono il loro destino, mentre si arrotolano in sé, intorno a sé, e mentre si intravolgono nel loro essere e nel loro divenire. Il satiro osserva il tutto e se la ride, un po’ cinico e un po’ beffardo, un po’ indifferente e un po’ partecipe, mentre se ne sta sul soffitto a dondolare “tra il riso e il pianto” (p. 38) e si lascia percepire come un personaggio un po’ surreale e un po’ drammatico. D’altra parte in un verso profondamente rivelatore, la Iorio afferma: al mio verso non chiedo altro”(p. 46).
Ma altro rispetto a che cosa? cos’altro canta, o può cantare, il suo verso? ed è davvero sorridente-bonaria-sarcastica-disincantata la poetessa, come un satiro? A dir la verità, stando ai versi presenti nell’antologia, noto nella Iorio una vena profonda di amarezza, stavo per dire amaritudine, nella sua ricognizione del reale. Amarezza/amaritudine derivante da uno stato di profonda solitudine. Non è un caso che il segno “solo” ricorra più volte in questi testi, ad indicare come la solitudine sia uno stato dell’essere, una condizione dell’esistenza, e non uno stato d’animo prodotto da situazioni contingenti. Tutto si muove intorno, mentre la nostra poetessa, sorpresa dalla “girandola” delle cose, sta seduta davanti al suo foglio e si sente “come una foglia / sul ramo”, dove ondeggia in balia di un movimento non prodotto da lei.
Solitudine significa vivere in uno spazio appartato, dove “non si sente // il profumo del mare / il respiro dell’onda / il canto della balena” (p. 40), cioè dove non arrivano neanche il respiro della natura, le voci del mondo naturale. La nostra poetessa se ne sta sola a “cercare profumi di sogni” (p. 38), mentre si sente come “la guardiana dei porci” (p. 40) che non ha nulla da offrire se non cose banali e inutili: “sono la guardiana dei porci / da offrire ho solo / mele marce bucce torsoli pasture / da leccare” (p. 40). Tuttavia non bisogna rassegnarsi: “bisogna essere pazienti con la vita / come un’arancia appesa a un ramo // fuori la buccia amara / dentro gli spicchi rossi” (p. 41): aspettare in silenzio, questo è ciò che ci ordina la vita, la vita che passa nella solitudine del silenzio o nel silenzio della solitudine. E proprio nel silenzio la Iorio sembra quasi involgersi in uno stato grave e rischioso di passività, perché in due componimenti, di pag. 42 e 43, la negazione “non” sembra dominare lo spazio della mente e dell’animo: nel primo, Solo il fuoco, lei confessa di “non” ricordare assolutamente nulla del suo passato, se non “la cenere // e sotto il fuoco”, alludendo probabilmente al fuoco di qualche passione messa a tacere, sogni tenuti repressi, ambizioni controllate se non schiacciate; mentre nel secondo testo, Oggi, Giovanna confessa amaramente che quella giornata se n’è andata via nella più assoluta inerzia esistenziale: “Oggi non ho vissuto” (p. 43), mentre il tempo passa e a lei non resta che guardare la “clessidra” che scandisce i battiti del tempo che se ne va nella sua irrecuperabilità. La condizione esistenziale descritta, comunque, non è esclusivamente sua, ma è riferibile a tutti gli uomini, come si può evincere dal testo Umano di pag. 45 riportato in esergo, riscritto a mano dall’autrice ad indicare che è proprio lì, in quel testo, il succo della sua visione della vita e del mondo: “Vivere / senza lasciare impronte // passi invisibili / su dune d’aria // sperare sempre / in un paio d’ali”: la vita se ne va nella sua sostanziale insignificanza; l’uomo è un essere incapace di incidere in modo decisivo sulle cose e di lasciare una impronta di sé che lo ricordi; il cammino compiuto dall’uomo non lascia traccia; non resta che sperare di avere un giorno delle ali per volare, per volare nei sogni e nelle illusioni. Insomma l’uomo non può fare altro che prendere atto della propria fragilità, così nella vita come nella storia, se non addirittura della propria insignificanza.
Questo sembra il messaggio che si può enucleare dalla poesia della Iorio che presenta, nella struttura della versificazione, tre caratteristiche evidenti.
La prima è il verso breve, sicché un testo sembra essere costituito da un’elencazione di cose: la poesia della Iorio è come sguardo che corre sulle cose, le annusa e passa via. Ma in realtà il verso breve consente di esaltare al massimo grado la semanticità e la fonicità dei segni e delle espressioni, delle frasi o dei sintagmi. Tale brevità è anche funzionale alle cadenze ritmiche, alle pause, che la Iorio crea intenzionalmente, ed evidenziate anche dagli spazi bianchi nelle interlinee, come a voler sottolineare le risonanze che le parole devono destare all’orecchio e nell’animo del lettore.
La seconda caratteristica, che si avverte specificamente nei suoi testi migliori e poeticamente più intensi, è costituita dal linguaggio. Linguaggio che solo superficialmente, e soprattutto in qualche testo, appare semplice, nel senso che trasmette messaggi facilmente fruibili, mentre in realtà, e per lo più, si tratta di un linguaggio caricato intenzionalmente di significati allotri, perché frequentemente si registra uno scarto profondo tra significante e significato.
La terza caratteristica è costituita dal fatto che anche questa poesia si colloca in sintonia con il titolo della raccolta, nel senso che anche la Iorio, dalla osservazione della realtà, in virtù della sua sensibilità e della sua frequentazione assidua della poesia, che studia e traduce da una lingua all’altra, riesce a percepire quell’invisibile alla ricerca del quale, immancabilmente, si pone ogni poeta.

Ketti Martino

Dico subito che i testi di Ketti Martino presenti nell’antologia danno già a prima lettura l’idea di una poesia complessa, prodotto di una mente speculativa e indagatrice e di un animo che, pur se combattuto tra opposti scogli nei marosi impetuosi dell’esistenza, riesce a conservare la sua forza e la sua solidità. E questa impressione resta confermata alla luce di successive letture che i testi richiedono per una penetrazione nel profondo della loro carica contenutistica e artistica.
I testi sono raggruppati in tre “cornici”, tre quadri all’interno dei quali vengono scanditi tre momenti di una vicenda che non ha nulla di fattuale, nel senso di comportamenti e atteggiamenti, ma è tutta interiore, psicologica, mentale, che Ketti cerca di sgrovigliare e di interpretare con chiarezza, chissà, forse per non perdervisi dentro involta nella sua ragnatela.
È settembre, ormai tutti sono andati via dalle spiagge, e “il mare rabbrividisce al respiro del silenzio”, mentre gli alberi se ne stanno immobili “quieti. Aspettano che l’autunno spogli” (p. 48). Lei se ne sta ora nella sua solitudine. Non le resta che parlare  “parlare ai tronchi e ai giorni che in terra / mi tengono ancorata” e vivere, “in un sordo ripetuto gesto”, la monotonia di questi momenti senza vita vera. Allora è il momento di prendere carta e penna e dar vita ai propri pensieri. E sono pensieri amari: “Sulle ciglia il precipizio / assieme al rimmel”; ed è anche il momento di “ammucchiare i cocci”. Continua la “percezione” delle cose, mentre “stretta a un filo d’erba, osservo / l’ultima cometa prima di salpare”, forse prima di prendere il volo verso nuove esperienze o avventure di vita.
Questo è il senso generale della prima cornice, fondato sul soliloquio e su una ricerca di sé su un fondo tutto psicologico e soggettivo. L’autrice vuol vederci chiaro  in quella che appare come un’esperienza i cui contorni reali sembrano sfuggenti, anche se “a volte l’incipiente percezione / arriva con la velocità del lampo” (p. 49).
Nella seconda cornice appare un “tu” al quale costantemente Ketti si rivolge: “Vivo come se non avessi altro / che il vuoto mio / cercarti sulle sponde / e nell’ignoto, accanto al ciglio, / nell’inestinguibile distanza / che naviga nella parentesi” (p. 50), e s’indovina il senso di “smarrimento”, di confusione della mente, di solitudine, d’incertezza, così come si indovina il tentativo di rimettere insieme i cocci di una esperienza che vale la pena ripensare per non farla disperdere tra i gorghi della dimenticanza. Viene in aiuto la scrittura, che sempre appare come un rifugio, quando davanti alla pagina bianca cerchiamo di specchiarci nei momenti confusi e incerti della nostra vita. Ma poi la realtà sembra riprendere il sopravvento, soprattutto prevale l’impressione che quel che viviamo veramente nella vita, tolto l’inutile e tutte le cianfrusaglie che non servono a nulla, sia veramente poco: “Non avremo molto tempo per guardarci” – scrive Ketti, mentre la “malinconia” dell’incipiente stagione autunnale porta con sé la nostalgia dei ricordi. Certo, quando un’esperienza di vita, un rapporto, una comunanza di affetti, ingenera “pause” e “amarezza”, allora il desiderio di riprendere è vivo e forte: “Ma siamo qui. E in noi e in ogni tessitura / di memoria è il filo che ci tiene”, sicché quel “poco / stare insieme che non basta” ingenera quella che Ketti definisce “la rugiadosa voglia di altri giorni”. Insomma: la vita vera, quella che noi viviamo veramente, in sintonia con i nostri desideri e bisogni, è veramente poca.
La terza cornice è costituita da un solo testo nel quale sembra esaltato il valore della poesia: “Vivranno parole, o echi di voci sussurrate”, e con essi vivrà ciò che è stato e che costituisce lo scrigno dei ricordi. Anzi, a volte basta proprio questo, cioè l’affidare alla parola ciò che non possiamo fare realmente: “Nutrirsi delle onde può bastare, / ché non ti perdo se ti ascolto attenta / e, in dissolvenza, come pagina che fluttua / senza corpo, scrivo” (p. 53).
Questo sembra il senso del trittico di Ketti Martino. Ma l’aspetto più importante di questi testi è la qualità della poesia. Si tratta, come ho detto agli inizi, di una poesia complessa, profonda, e soprattutto strutturata in modo originale. Colpisce la struttura linguistica: parole scelte, selezionate non soltanto in relazione alla loro carica semantica, ma anche per la loro disponibilità ritmica e fonica a calarsi nel contesto dei versi. Di conseguenza colpisce la musicalità del verso, e soprattutto la rispondenza tra la musicalità del verso e le vibrazioni dell’animo, cosa che si percepisce all’ascolto, ma anche dall’animo stesso del fruitore, tanto intensa è la poesia di Ketti. Un esempio: “Come se non sapessi fare altro, / getto questo meriggiare dietro gli occhi / e parlo ai tronchi e ai giorni che in terra / mi tengono ancorata. // Delle ombre riconosco il verso, / uguale agli stessi miei rosari. // Se chiudo gli occhi, sento i battiti / e i crepacci che separano le zolle. // Nutro il mancamento, annodata / alla muraglia di un sordo ripetuto gesto” (pp. 48-49).
Poesia, quindi, che riserva al lettore una continua sorprendente scoperta di un mondo originale che lo costringe, da un lato, a rincorrere l’autrice nelle sue avventure filosofiche e poetiche, e dall’altro a fare i conti con una versificazione vibrante, strutturata in modo organicamente complesso, capace di toccarne le corde più intime. Poesia fatta di ricerca, o come direbbe Pavese, “scavo e fogo dell’anima”. D’altra parte, Ketti ha intitolato la sua prima raccolta di versi: I poeti hanno le unghie luride, volendo sottolineare che è proprio lo scavo profondo, scavo in sé-nella realtà-nella parola, e quindi il lavoro febbrile e intenso che consente al poeta di elaborare un prodotto di qualità.

Cinzia Marulli Ramadori

A prima lettura la poesia di Cinzia sembra l’espressione ingenua di buoni sentimenti. Ma è una falsa impressione, forse provocata anche da quel testo in esergo, scritto a mano dall’autrice: “Vorrei avere sempre / gli occhi di bambina / per guardarmi intorno / con stupore / per giocare la vita / col sorriso innocente / della verità” (p. 55). Testo di una semplicità sconcertante, ma contenente un chiaro interessante principio di poetica sul quale oggi bisognerebbe riflettere molto: guardare il mondo con gli occhi di un bambino e provare uno stupore innocente e puro, non è un gioco da ragazzi, ma un’esigenza di un’anima protesa alla scoperta del senso vero del reale, senso tante volte trascurato e dimenticato, e lanciata verso un’operazione poetica affascinante e anche difficile qual è quella della conquista di una semplice e chiara modalità espressiva, che poi è la più difficile delle modalità poietiche. Senza scomodare il Pascoli e il suo magistero, diciamo subito che questa esigenza della coscienza non compromette, non deve compromettere, assolutamente la serietà e la profondità del fare poetico. E difatti, leggendo attentamente i versi di Cinzia, subito risulta evidente che la sostanza vera della sua poesia abita al di sotto della scorza esterna. Ed è questo il lavoro critico che bisogna affrontare, scendere nel cuore delle parole, per cogliere la vera essenza di una particolare modalità del fare poetico.
I testi presenti nell’antologia sono strutturati intorno a due tematiche di particolare interesse: il sogno di un altrove e le ragioni del fare poetico.

Il sogno di un altrove.

Cinzia mostra chiaramente di avvertire dentro in sé il bisogno di percorrere la strada della ricerca di uno spazio nel quale “ritrovarsi”. Proprio questo verbo usa la poetessa: “ritrovarsi”, nel senso di ritrovare la vera dimensione di sé, ritrovare il gusto delle “emozioni” ed “assaporarle come le merende golose dei bambini”, “riporre le ansie”. Insomma trovare un altrove per obbedire a profonde esigenze dell’anima: “Lo cerco, dunque, quel luogo dove ritrovarmi. Lo cerco però / nella mia povera anima” (p. 56).
Si tratta dunque di uno spazio tutto interiore, di esigenza di serenità dello spirito, di assenza di turbamento, forse di equilibrio spirituale. È l’esigenza tipica delle persone alle quali la natura ha fatto dono di una particolare conformazione interiore, di una sensibilità che spesso diventa una condanna quando ti spinge a porti domande insolite e impegnative e a profonderti in un difficile lavoro per elaborare risposte esaurienti.
D’altra parte, alla nostra poetessa capita di oscillare tra sogno e realtà, ed è la realtà che lei non sopporta: “S’è fatto mare il pensiero / e m’ha immersa nel sogno // nella sua frescura mi piace restare // non la voglio l’afa del vero / quel suo essere pietra dura / mi scheggia il dolore” (p. 57). Non si tratta di motivi semplicemente letterari, ma di una reale condizione dello spirito: quando non ci si ritrova nella realtà, è normale rifugiarsi nel sogno per fuggire dalla “monotonia dell’apparenza”. In effetti, anche il componimento Pensieri, dedicato agli affetti famigliari, alle figure dei genitori, che trasmette un profondo sentimento di affetto e riconoscenza filiali, è la spia di un disagio esistenziale reale, ed è ora il caso di leggerlo per comprendere meglio il senso della scontrosa e grave dialettica che viene ad ingenerarsi tra la nostra poetessa e la realtà che la spinge al sogno: “Te lo ricordi mamma / il caffè alle quattro di mattina / quando il buio ancora penetrava / nelle ossa? / Qualche straccio addosso / il vecchio cappotto nero e uno scialle intorno / alla testa per affrontare il freddo / e poi, tu e papà / lungo la via del Tritone a camminare / silenziosi, fianco a fianco / con la testa bassa e il sonno negli occhi / l’ufficio sempre lo stesso / le stesse cose da pulire / con le ginocchia sul parquet lucido / e le mani sante nelle latrine / io, invece, ancora a casa / con i libri sulle ginocchia / e poi a scuola a distruggere lo straccio sporco di miseria” (p. 55).
Sogno e realtà che Cinzia configura nei due principi della luce e del buio, come nel testo Yin-Yang, i due princìpi della filosofia cinese, princìpi contrapposti, sì, ma anche interagenti, sicché, se è vero che la luce cede lentamente il passo al buio e il buio alla luce, è pur vero che nella luce puoi trovare dati oscuri e nel buio momenti di luce, ma in Cinzia non è così perché “nella polvere lucente delle stelle / si nasconde il buio del deserto” (p. 59).
È il predominio del buio: “In quel nero senza luce / giace il corpo inerme della coscienza” (p. 58), coscienza che si affatica e si dispera per allontanare le “ombre”.
Allora, dov’è possibile ritrovare quell’altrove? quello spazio in cui le ombre si diradino, la coscienza si liberi e si rassereni, il buio ceda il passo alla luce? La risposta di Cinzia evidenzia, da un lato, la sua delicata conformazione etico-spirituale, e dall’altro la profondità della sua ricerca: “Forse il mistero è nella fine. È lì che si trova quel luogo”, e infatti “deve pur esserci un dove anche se fuori da questo tempo; / nella dimensione altra del sogno - forse. Lì ci sono stata. / L’ho percorso tutto il sentiero – ed è bello, c’è il sole che scalda lo sguardo / e lo sguardo si culla nella chiarezza del bene” (p. 56). E siamo anche qui nella percezione dell’invisibile come bene dell’anima, come movimento verticale della coscienza.
Questo il messaggio etico-spirituale che ho colto nei testi. Ed ora veniamo alla seconda tematica:

Le ragioni del fare poetico.

Anche in questo caso il discorso non può non destare un grande interesse. Allora: la nostra poetessa si domanda perché scriva, perché senta il bisogno di dire in versi ciò che, ovviamente, si potrebbe dire con altre modalità della scrittura letteraria. Risposta:
“Scrivo perché sento la luce farsi specchio / perché cerco il percorso  / che mi porti ad una meta senza arrivo, / ad un bosco che odori di bosco, / perché mi sento ghianda / dispersa nella terra / scrivo perché fiorisco come un hibiscus al sole / perché la mia voce non è abbastanza / forte da urlare la tempesta che mi scuote. // Scrivo perché un giorno un amico
mi regalò una penna facendomi credere / che fosse una bacchetta magica” (p. 59).
Nella scrittura ci si può specchiare, e la scrittura poetica può essere il mezzo per effettuare una ricognizione di sé, per vedersi, per leggersi, per chiarire a sé e agli altri le proprie ragioni, le proprie contraddizioni, la propria lettura della realtà, la tempesta di sentimenti e passioni che agitano la nostra interiorità.
Di qui la necessità della scrittura poetica, in particolare quella di Cinzia, che è strutturata ora con versi brevi, ora con versi lunghi, perché ora lei sente il bisogno di esprimere con più immediatezza le sue problematiche, ed ora si mostra più riflessiva, più razionale. In entrambi i casi piace la sua scrittura, per lo più caratterizzata da una elegante liricità, anche quando lei si profonda in momenti di più alta riflessione. Così come piace quel linguaggio settoriale, spesso estratto dal mondo della natura, ma che viene caricato di valenze allusive, simboliche e metaforiche. Così come piace, infine, quella musicalità dolce e ondulata della versificazione, a specchio della personalità dell’autrice, sempre così dolce, così gentile, così affettuosa.  
  
Marco Righetti

Marco Righetti è presente nell’antologia con un solo testo, un lungo testo, un monologo, che mi fa pensare che l’autore lo abbia destinato alla recitazione. E difatti di un testo teatrale possiede tutte le connotazioni: vibrante e teso, ricco di pathos, molteplice nel tono dal più basso e raccolto al più vigoroso e fremente, ma sempre intenso, caldo, palpitante. Il poeta dà voce a Melissa Bassi, la ragazza di 16 anni morta durante il folle attentato alla scuola di Brindisi del 19 maggio 2012. È lei che parla in prima persona rivolta alla madre, e parla Come una madre (che è anche il titolo del testo). La sua voce viene dall’aldilà e assume le caratteristiche di una figura che, pervenuta all’altra vita, ha subìto una profonda trasformazione e trasfigurazione: la sua è la voce di una ragazza che, sottratta alla vita e regalata alla morte, parla come una sorta di sacerdotessa di un dio dell’aldilà, con parole che solo una donna giunta ad una dimensione di vita diversa da quella umana, transumana, può trovare in fondo al suo cuore. Sono parole di amore, di perdono, di indulgenza, lontanissime dall’odio, dal rancore, dallo spirito di vendetta.
La voce di una ragazza passata all’altra vita mi ha subito riportato alla mente un’altra ragazza, la Silvia leopardiana. Ma qui non è il poeta che parla, ma Melissa, una sorta di Silvia rovesciata, come vedremo di qui a poco.
Intanto Melissa parla alla madre: “ti scrivo da una ferita che non ha più sangue // ferma nel secondo che l’ha aperta / a un passo dai banchi di scuola” (p. 64), e si dichiara serena nel ricordare che alcuni suoi organi servono a far vivere qualcun’altra: “ho regalato la mia giovinezza a una ragazza sconosciuta / sperando che la viva con maggior fortuna” (p. 64).
Poi è il momento della memoria, quella che più avvicina Melissa alla Silvia di  Leopardi: “la mia borsetta imitava / il verso degli adulti / l’occorrente per un ballo di eleganza / sfogliavo riviste cercavo un matrimonio al volo / fra me e una felicità sperata // quel tuffo di un colore vivo / l’entrarmi di un piccolo infinito // un filo di perle una calza di seta / e il balbettio di una serata diversa / io per un attimo all’altezza dell’immagine amata” (p. 65).
E sono momenti in cui Melissa, ancora sulla soglia della sua giovinezza, disegnava nel cielo del suo futuro un progetto di vita serena, l’amore, il matrimonio, e intanto si preparava a vivere una serata spensierata. Era il tempo della felicità vissuta e sperata, e perciò ora può dire: “non sapevo nulla del buio” (p. 65): non poteva prevedere, e neanche poteva pensarci, che la sua vita sarebbe stata troncata per sempre nel fiore degli anni, e con essa le speranze, le illusioni, i sogni che amava proiettare nel futuro. L’aspettava al varco un tragico destino, “l’inizio di una rincorsa verso Dio” (p. 65), e allora Melissa diventa un’altra, una “figura impleta”, per dirla con i Padri della Chiesa. E difatti la ragazza ora può dire: “adesso nulla più mi sfugge”, proprio per essere divenuta, nell’aldilà, una “figura piena”, cioè giunta alla sua pienezza, alla piena dimensione di sé come ragazza pienamente realizzata nella sua essenza di persona. E perciò ora, proprio dall’alto della pienezza raggiunta, può dire cose che nella sua terrestrità, cioè nella sua dimensione umana, non avrebbe mai detto. Per questo alla madre può dire: “ti chiedo di non maledire più l’orrore / a combatterlo ci penserà la giustizia / e l’opera della coscienza” (p. 66); e poi: “non voglio più catini di lacrime / absidi di compiete e guance dilavate” (p. 66); e poi: “nell’affanno del dopo ho trovato / anche quello che non avevo mai cercato” (p. 66); e poi ancora: “Madre prendi tu la Melissa che si celava / nel suo guscio di timidezza / vi leggerai parole di apertura a tutti / e l’immagine dell’assassino” (p. 66), e infine: “è troppo facile per te incidere / rabbia e angoscia non voglio / che lui continui a generare sofferenza / condannalo invece a cercare luce” (pp. 66-7).
In queste parole ancor di più c’è la voce di una ragazza che il poeta ha trasformato in una voce di amore, di perdono, di speranza: è l’augurio che il mondo possa finalmente trovare la sua strada vera, la strada dell’amore, e che anche nell’uomo più folle e più cieco possa nascere il desiderio di trovare finalmente la luce, cioè quella consapevolezza del male che costringe a scoprire l’essenza e il valore del bene e dell’amore. E intanto Melissa può dire: “mi ha sottratto a voi / al sorriso del mondo / al dono che ero a me stessa / ma la sua vita vale più del male che ha fatto” (p. 67): è l’affermazione del valore incommensurabile della vita, di ogni vita, su cui Melissa-Marco invita tutti gli uomini a riflettere. E forse proprio di qui, solo di qui, da queste considerazioni sul valore e significato della vita, può nascere la più grande e più vera rivoluzione sociale della storia umana di cui il mondo oggi avrebbe tanto bisogno. È bello che Marco Righetti, il poeta, faccia annunciare proprio a una ragazza di 16 anni, barbaramente uccisa da un gesto insano e per tanti versi inspiegabile, parole di così grande umanità: la vita dell’attentatore che l’ha uccisa “vale più del male che ha fatto”. Ora che Melissa ha pronunciato queste parole, può dire di sentirsi veramente “libera” e soprattutto: “non ho più limiti all’amore / mi dilata l’assoluto” (p. 67), l’assoluto tra le braccia del quale ora è approdata e che le consente, come si è detto in precedenza, di diventare “figura impleta”.
Che dire?
Marco Rigetti ha proiettato nella figura di Melissa e nella sua voce quello che è il suo grande messaggio: anche le vicende più oscure e torbide della nostra vita e della nostra storia possono essere lette con un occhio illuminato dalla luce dell’amore e della comprensione. È un messaggio di grande momento che sconvolge e trafigge il cuore del lettore. Non voglio neanche pensare a quale risultato potrebbe conseguire la recitazione di questo testo, affidato a una giovanissima attrice, nel cuore dell’ascoltatore. Si può indovinare una grandissima emozione e naturale partecipazione dell’animo. Perciò al valore estetico del testo non nuoce neanche la presenza in esso di alcune punte un po’ retoriche, forse richieste al poeta dalla forza dello slancio drammatico con cui ha voluto cantare il tragico destino di Melissa facendone la portavoce del suo messaggio e della sua verità.     

Raffaele Urraro


giovedì 25 aprile 2013

La prima presentazione: Campidoglio, Sala del Carroccio, Roma, 24 aprile 2013

La prima presentazione dell'Antologia "Percezioni dell'invisibile" si è svolta a Roma, in Campidoglio (Sala del Carroccio), il 24 aprile 2013. I relatori sono stati: Raffaele Urraro e Plinio Perilli, i quali hanno ampiamente discusso sulle opere dei singoli autori antologizzati. E' intervenuto anche l'on. Dario Nanni con un breve discorso di saluto. Ha coordinato il curatore dell'antologia Giuseppe Vetromile. Alla fine dell'incontro, dinanzi ad un pubblico numeroso ed attento, i poeti dell'antologia hanno letto un loro testo poetico.

Le foto della presentazione:

venerdì 19 aprile 2013

La presentazione al Teatro dei Dioscuri

                                                       

L'8 maggio la seconda presentazione: al teatro dei Dioscuri, Roma

martedì 9 aprile 2013

La prima presentazione dell'Antologia a Roma



PRESENTAZIONE DELL'ANTOLOGIA "PERCEZIONI DELL'INVISIBILE".
SALA DEL CARROCCIO, PALAZZO SENATORIO, PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO 1, ROMA
MERCOLEDI' 24 APRILE 2013 ORE 17.30
Sarà presentata a Roma, in Campidoglio, il 24 aprile prossimo alle ore 17.30, l'Antologia "Percezioni dell'invisibile", curata da Giuseppe Vetromile per conto delle Edizioni "L'Arca Felice".
Introduce l'On. Dario Nanni
Relatori saranno: Plinio Perilli e Raffaele Urraro.
Interventi di Giuseppe Vetromile, Mario Fresa e Ida Borrasi.
Saranno presenti gli Autori dell'Antologia:
Lucianna Argentino, Pasquale Balestriere, Floriana Coppola, Giovanna Iorio, Ketti Martino, Cinzia Marulli Ramadori, Marco Righetti.
L'Antologia è impreziosita con fotografie di Gabriella Maleti.
Voci diverse tra di loro, ognuna dotata di un proprio "Dna" poetico ben preciso, originale e unico, ma tutte tese a ricostruire, almeno in parte, come in un grande mosaico, i brani del profondo e invisibile mondo che sta sotto la nostra quotidiana superficie materiale e temporale, non soggetta quindi a nessun degrado ma che si lascia ben percepire dai sensi affinati dei poeti esperti, come i sette qui proposti in questa elegante raccolta antologica.(Dalla presentazione di Giuseppe Vetromile).

Le foto della presentazione al Teatro dei Dioscuri, a Roma, l'8 maggio 2013

Lucianna Argentino legge la sua poesia. Campidoglio, Roma, 24/4/13

Marco Righetti legge la sua poesia. Campidoglio, Roma, 24 aprile 2013